et.people/8 intervista a Fabrizio Tesse
Lo chef: «Sostenibilità? Difficile tra i fornelli»
Fabrizio Tesse, una stella Michelin, è executive chef del Grand Hotel Sitea di Torino, storico albergo del capoluogo piemontese. Al suo interno, Tesse gestisce tutta la ristorazione, dal Ristorante Carmignano, appena insignito della stella, al Bistrot “Carlo e Camillo“, alla linea banchettistica. Definisce il suo uno «slow food ricercato, curato, con materie prime che arrivano dal mercato rionale ma anche dall’altra parte del mondo, perché con certi piatti i clienti provano un’esperienza culinaria ed educativa». Per questo, dovendo dare una definizione della parola sostenibilità, non nasconde una certa difficoltà. «La sostenibilità è un concetto intelligente, utile per la società e per l’ambiente, ma se devo pensare al mio lavoro, applicarla è davvero difficile. Parlare di chilometro zero, per esempio, è fuorviante, direi quasi un modo per far rimanere ignoranti i clienti, imponendo un limite mentale. Se voglio usare un frutto esotico, non me ne privo, pur sapendo le implicazioni ambientali e sociali che innesco con l’acquisto, ma prevale l’esperienza culturale che voglio inserire nel piatto».
Secondo lei la sostenibilità è diventata rilevante nel suo lavoro?
Se ne parla. Tanti ristoratori lo fanno, ma soprattutto per una moda del momento, che posso condividere, di base, ma ritengo si tratti di un momento destinato a passare. Lo vedo come trend, specialmente nella biodinamica (che utilizza prodotti coltivati senza uso di pesticidi, ma cercando di essere il più naturali possibili). Anche tra i clienti ne sento parlare, sempre come moda, vedo che conoscono il tema e richiedono maggiore cura sui prodotti. Quello che faccio io è selezionare ingredienti buoni e di qualità, cercando di sapere tutto quello che c’è dietro. Il 90% dei prodotti che utilizzo in cucina arriva da queste parti, ovviamente, ma ci sono altri ingredienti da conoscere, anche se arrivano da Paesi lontani. Capisco che ci siano delle implicazioni, soprattutto ambientali e sociali, cerco di pensarci, però, ribadisco, voglio che i clienti abbiano un approccio anche culturale ai miei piatti.
Nella sua vita privata si considera una persona attenta alla sostenibilità?
Purtroppo no. Pensandoci, se devo guardare tutto quello che acquisto e ho addosso, tra abiti e scarpe, nulla è sostenibile. So che essere sostenibili, attenti a queste tematiche è complesso anche nel quotidiano, ma già parlarne ora mi ha fatto aprire gli occhi, mi porta a rifletterci con più attenzione.
Secondo lei la sostenibilità come potrebbe diventare più interessante?
Tanti colleghi già ne parlano nei propri ristoranti, sottolineano nei menù la provenienza delle pietanze e la clientela apprezza. Aggiungerei che i clienti sono disposti a pagare di più perché si fidano di quello che si trova nel piatto. Io ho sempre lavorato così, spiegando i miei piatti e gli ingredienti, facendo capire da dove arrivano e come sono trattati.
Parlare di più di sostenibilità la potrebbe aiutare come personaggio pubblico?
Penso che fare delle manifestazioni a tema sostenibile possa essere un modo. Ma non vorrei essere associato a una moda del momento, come detto, trovo che alcuni eventi abbiano un’idea di fondo sbagliata, un po’ ipocrita. Certo, ho partecipato anche a manifestazioni che hanno centrato nel segno. Due anni fa ho preparato una cena per Unicef “a spreco quasi zero”, per cui ho riutilizzato qualsiasi parte del cibo, compresi gli scarti: si può fare, anche per gli chef stellati che spesso vengono indicati come quelli che buttano più cibo! Ecco, lo spreco del cibo nella mia cucina non avviene. Se devo usare una patata, per esempio, la pelo e con la buccia posso farci delle chips, una polvere, mille altre cose. È un lusso che posso permettermi, anche perché non lavoro con i ritmi frenetici e le richieste che possono esserci in un fast food o in un ristorante con tantissimi coperti.
Cecilia Mussi
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