il messaggio della Climate Bonds Initiative
Perché il greenwashing frena il Net zero
Il greenwashing è un rischio tangibile per l’intero percorso di transizione del sistema industriale. Non solo un fenomeno cui prestare attenzione a livello di consumo e investimento retail, quindi, ma un fattore in grado di minare gli sforzi di cambiamento del modello produttivo. A scriverlo in modo chiaro è un report della Climate Bonds Initiative, il network internazionale impegnato nella promozione dell’investimento sostenibile, il cui titolo è già indicativo “Transition finance for transforming companies – Avoiding greenwashing when financing company decarbonisation”.
L’analisi ripercorre l’accresciuto numero di strumenti, operativi e normativi, che oggi consentono alla finanza di sostenere la transizione dell’economia reale. Rilevando come, potenzialmente, il sistema si stia già dotando di leve in grado di trasferire capitali nella direzione auspicata in relazione al Net zero.
Nel contempo, il report passa in rassegna i punti di debolezza che questo portafoglio di tools ancora evidenzia. In particolare, la Climate Bonds Initiative si focalizza sul basso grado di credibilità che alcuni strumenti consentono, sia per effetto di mancanze nella (spesso nuova) regolamentazione sia per mancanza di esperienza da parte delle aziende che li mettono in campo. Insomma, il rischio è di un greenwashing strisciante, ma non per questo meno pericoloso.
TIMORI DI MAQUILLAGE
«Man mano che il mercato della finanza sostenibile si espande fino a includere grandi emettenti ed emissioni su larga scala – si legge nel report -, una sfida chiave è la necessità di dimostrare la credibilità della futura transizione dell’azienda ed evitare il greenwashing. Finora, la risposta del mercato ai transition bond e ai Sustanability-linked bond è stata mista. Mentre gli investitori accolgono con favore l’inclusione di più tipi di entità nello spazio del debito sostenibile, le preoccupazioni principali riguardano la rilevanza, l’affidabilità e l’ambizione dei percorsi di transizione». Il report, poi, diventa ancora più esplicito nell’evidenziare il problema: «I Kpi fissati sono specifici per ogni entità e difficili da confrontare con i pari o con obiettivi più ampi, come quelli dell’Accordo di Parigi, e c’è la preoccupazione che alcune di queste emissioni siano state “business-as-usual” con un altro nome. Così, anche se sulla carta il mercato ha visto una crescita impressionante, è stato spesso difficile valutare l’impatto e l’ambizione di ogni bond. Il mercato non crescerà al suo pieno potenziale se queste preoccupazioni non vengono affrontate».
ENI, BUON ESEMPIO A METÀ
Il report, nonostante vada diretto al cuore della questione, non ha un tono di denuncia o accusatorio. Cerca, piuttosto, di sollecitare i protagonisti del sistema. È in questo modo propositivo che, come esempio, viene citato il sustainable-linked bond di Eni dello scorso giugno. La società italiana, spiega Climate Bonds Initiative, merita una menzione positiva per «il suo impegno a includere le emissioni del ciclo di vita (scope 3). Questo è un passo nella giusta direzione per le entità basate sui combustibili fossili per iniziare il loro viaggio di transizione, delineando impegni per ridurre le emissioni dalle attività esistenti e dichiarando l’ambizione delle entità di investire nelle energie rinnovabili. Tuttavia, la genuina ambizione dello strumento avrebbe potuto essere rafforzata se fosse stata inserita nel contesto di una più ampia strategia aziendale in linea con 1,5°. Il quadro di riferimento avrebbe beneficiato di maggiori dettagli sul piano di transizione per i prossimi anni e su come il capitale sarà allocato».
In generale, il sistema subisce una mancanza di completezza informativa. «Abbiamo visto esempi in cui gli emittenti sono arrivati sul mercato omettendo i Kpi che affrontano le fonti materiali delle loro emissioni. Questo solleva preoccupazioni per gli investitori, poiché una contabilizzazione incompleta delle emissioni rende difficile determinare se l’azienda sta facendo una transizione completa o se sta solo facendo cherry-picking (raccogliendo i frutti a portata di mano, ndr), il che solleverebbe domande sul greenwashing. La transizione non può essere credibile senza affrontare tutte le emissioni materiali».
L’ACCUSA ALLA TASSONOMIA
Il tono più accusatorio, la Climate BondS Initiative lo riserva alla tassonomia europea. Ci sono certamente delle lacune nella compliance, si legge, «che non ha una copertura completa di tutte le attività economiche, e in alcuni casi stabilisce obiettivi per una buona performance oggi, ma non percorsi di transizione per definire obiettivi futuri. Per esempio, il regolamento sulla Tassonomia Ue richiede che tutte le grandi aziende rivelino quale proporzione delle loro entrate è conforme ai criteri della Tassonomia Ue e quindi è sostenibile. […] Ma i criteri per queste attività sono statici, rappresentano soglie per una buona performance per oggi, ma nessun percorso per domani. Il regolamento prevede che i criteri per tutte le “attività di transizione” nella tassonomia saranno rivisti ogni tre anni, ma non c’è alcuna indicazione dei probabili percorsi futuri».
Climate Bond Initiativeet.climategreenwashingnormativaTassonomiaTaxonomyTransition