paper del Bennet Institute for Public Policy (Cambridge).

Basta tabù, serve un nazionalismo climatico

4 Dic 2024
Notizie Companies & CSR Commenta Invia ad un amico
Secondo Alessio Terzi, il nazionalismo economico applicato alle politiche climatiche, pur essendo meno efficiente rispetto alla a cooperazione globale, potrebbe risultare più praticabile. È cruciale il bilanciamento di interessi nazionali e cooperazione per accelerare la transizione verde e ridurre disuguaglianze interne e globali

«La mitigazione del clima attuata nel perseguimento degli interessi nazionali, anche attraverso politiche industriali verdi con elementi di nazionalismo economico, è sicuramente meno efficiente rispetto a una risposta globale concertata. Eppure è probabile che si riveli la linea d’azione più praticabile», quindi non dovrebbe essere respinta a priori. È quanto argomentato dall’economista Alessio Terzi (Sciences Po, Cambridge) nel working paper “Climate nationalism” (Novembre 2024) del Bennet Institute for Public Policy, Cambridge.

«Soluzioni internazionalistiche» al cambiamento climatico sono vaghe, nonostante la questione sia un problema di esternalità globale. Ciò si deve al fatto che la crisi climatica si manifesterà in maniera eterogenea: alcune regioni saranno colpite più duramente di altre, e risorse e tecnologie avanzate non sono distribuite uniformemente. È quindi poco probabile che il problema si risolverà attraverso una «risposta coordinata a livello globale» e una «solidarietà internazionale senza precedenti», pur mantenendo trattati sul clima o accordi di collaborazione tra Paesi con interessi simili.

Come stabilito dall’Accordo di Parigi del 2015, si auspica il raggiungimento della neutralità climatica entro la metà del secolo, attraverso misure a lungo termine vincolanti per la decarbonizzazione e strumenti quali il carbon pricing. Per l’adattamento, l’approccio ottimale consisterebbe in un «massiccio trasferimento di risorse dai Paesi avanzati a quelli emergenti per sostenere investimenti in mitigazione e adattamento». Inoltre, i confini dovrebbero essere resi più accessibili per consentire la migrazione indotta dal clima come soluzione estrema, secondo il principio morale secondo cui i Paesi ricchi sono storicamente i principali responsabili delle emissioni. Bisogna notare però che i costi di adattamento climatico per i Paesi in via di sviluppo sono stimati intorno ai 70 miliardi di dollari l’anno, con un aumento previsto tra 140 e 300 miliardi nel 2030 e tra 280 e 500 miliardi nel 2050. E che per mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5 °C sono necessari 3,5 trilioni di dollari annui fino al 2050. Si parla di trasferimenti economici senza precedenti nella storia, superando il Piano Marshall (circa 50 miliardi di dollari annui per tre anni in valore attuale) o l’assistenza ufficiale allo sviluppo globale (160 miliardi di dollari nel 2020). Infine, poiché non esiste un governo mondiale che possa imporle, tali politiche internazionali richiederebbero adesione (e abbandono: gli Stati Uniti hanno lasciato l’Accordo di Parigi nel 2020) volontari.

È dunque possibile, chiede Terzi, che l’umanità diventi un gruppo coeso di fronte al cambiamento climatico? Nel contesto dei negoziati globali la dinamica conflittuale internazionale assume la forma di uno “scaricabarile”, con una parte (i Paesi poveri) che incolpa la mancanza di cooperazione internazionale per l’incapacità dei Paesi ricchi di fornire un aiuto sufficiente, e i Paesi ricchi che incolpano le economie emergenti di non decarbonizzare abbastanza velocemente, a scapito di tutti. Alcuni di questi aspetti sono già presenti nelle riunioni del G20 e in altre sedi internazionali come la Cop. I Paesi poveri saranno colpiti per primi dalla crisi climatica, e secondo modelli storici di lungo periodo a partire dall’istituzione di confini politici territoriali, ciò porterà alla «conseguente migrazione verso i Paesi più ricchi, portando a un irrigidimento dei confini e a relazioni internazionali più conflittuali».

Gli interessi nazionali diretti continueranno quindi a dominare, anche nella definizione dei futuri accordi di cooperazione. Il contenuto del paper dovrebbe servire a creare aspettative realistiche e chiare, e permettere ai policymaker di definire le priorità nei negoziati internazionali sul clima. A livello governativo, per evitare uno «scenario iper-conflittuale», le nazioni dovrebbero investire in processi inclusivi e contenere le disuguaglianze socio-economiche interne per garantire strategie coesive e resilienti di fronte ai cambiamenti climatici e «accelerare il più possibile la transizione verde per ridurre la probabilità di eventi meteorologici estremi».

Sofia Restani

 

0 commenti

Lascia un commento