In anteprima il report edhec
Il greenwashing nel fondo verde
Ci sono vaste incoerenze tra gli obiettivi dichiarati dai fondi basati su strategie incentrate sul clima e il reale impatto dei loro investimenti. È questa la conclusione raggiunta dalla business school parigina Edhec al termine di un’analisi dei rischi di greenwashing nella costruzione di portafogli sulla base di strategie climatiche, in particolare le strategie di allineamento al target Net Zero. Come anticipato dalla rassegna sostenibile della scorsa settimana (OB/ 270 “Fondi per il clima, strategie incoerenti”), nonostante gli asset manager comunichino ampiamente di usare dati climatici per costruire i loro portafogli Esg, secondo gli autori molti fondi non vengono gestiti «in modo coerente con la promozione di un tale impatto». Il lavoro degli accademici francesi è spiegato in dettaglio nel report “Doing Good or Feeling Good? Detecting Greenwashing in Climate Investing”, che sarà presentato ufficialmente domani 21 settembre in un webinar organizzato dalla business school, e che ETicaNews ha potuto visionare in anteprima.
Nello specifico, gli accademici parigini spiegano che quando si scava nel modo in cui la maggior parte dei più grandi fondi per il clima sono veramente investiti, si trovano pochissime differenze rispetto ai principali benchmark di mercato, come lo Standard & Poor’s 500. I dati climatici, infatti, incidono in media al massimo per il 12% nelle azioni del portafoglio: l’88% di ciò che guida un fondo per il clima, quindi, è ciò che si trova dietro qualsiasi altro investimento non verde. Lo studio ha anche scoperto che le strategie climatiche dei gestori di fondi quasi sempre «ignorano completamente se un’azienda ha migliorato o meno le proprie prestazioni climatiche», e addirittura gli investitori aumentano spesso le loro partecipazioni in azioni di società con prestazioni climatiche in peggioramento.
I rischi di greenwashing
Lo studio mette in luce che l’implementazione delle strategie climatiche, sebbene non riesca ad allocare il capitale in modo efficace per incentivare le aziende a contribuire alla transizione climatica, migliora i punteggi di sostenibilità del portafoglio, che quindi ottiene metriche climatiche interessanti. Punteggi che attirano gli investitori, ma di fatto non incoraggiano le aziende a ridurre le emissioni, né attraverso l’impatto diretto dell’allocazione sul costo del capitale né attraverso un canale di segnalazione.
Per questo motivo il report conclude che la stragrande maggioranza dei fondi che affermano di avere un impatto positivo sul clima è esposta a grandi e ovvi rischi di greenwashing. Secondo gli autori, a un portafoglio non dovrebbe essere consentito di presentarsi come promotore della transizione verso un’economia low carbon o net-zero, se le considerazioni climatiche rappresentano meno del 50% delle determinanti del peso dei titoli nel portafoglio stesso. In questa analisi, l’Edhec identifica e spiega i tre principali problemi che possono sorgere se i fondi si concentrano esclusivamente sul punteggio di sostenibilità.
Il vero driver dei fondi climatici
Nel report vengono analizzate e stilizzate 32 tipi di strategie che si basano su schemi di ponderazione comunemente usati e sui dati sulle emissioni di gas serra. Si arriva alla conclusione che le strategie climatiche non sono coerenti con l’obiettivo di influenzare le aziende a ridurre le loro emissioni perché i meccanismi di ponderazione più diffusi non sono allineati con gli obiettivi di impatto. Ovvero, il vero driver dei fondi per il clima non è il clima.
I punteggi climatici, infatti, incidono solo marginalmente, per il 12%, sulle differenze di ponderazione tra i titoli di un fondo per il clima, che per l’88% è invece guidato dagli stessi aspetti (principalmente la capitalizzazione di mercato), che si trovano dietro qualsiasi altro investimento non verde. Uno sbilanciamento in grado di travolgere qualsiasi considerazione climatica. Se poi al mix si aggiungono anche i punteggi Esg, si diminuisce ancora di più l’impatto dei punteggi climatici. Nelle strategie a obiettivi misti, infatti, il driver principale rimane la capitalizzazione di mercato (73%), seguita dal punteggio Esg (21%) e solo per il 6% dal punteggio climatico.
Le performance “ignorate” delle aziende
In secondo luogo, il report sottolinea che le strategie climatiche non tengono conto della performance climatica aziendale nelle loro decisioni di allocazione, e addirittura nel 35% dei casi vengono premiati e aumentati gli investimenti in azioni che mostrano un deterioramento del punteggio climatico nel tempo. Questa percentuale aumenta al 41% quando si utilizzano metriche di emissioni come l’intensità di carbonio.
In pratica, il punteggio verde di un portafoglio non tiene conto delle dinamiche delle singole imprese, di quanto sono “chiari” i “segnali” inviati al management delle imprese per motivarle a migliorare le proprie prestazioni climatiche, e nemmeno dell’efficacia delle strategie di coinvolgimento.
La scorciatoia sui settori ad alte emissioni
L’ultima questione messa in evidenza dall’analisi degli accademici parigini è che le strategie climatiche si limitano a sottoponderare i settori essenziali con emissioni elevate per migliorare i punteggi verdi del portafoglio. Il problema di adottare questa scorciatoia è che è più facile mostrarsi “green” limitando gli investimenti ai settori ad alte emissioni, invece di promuovere investimenti in tecnologie che consentano a queste di produrre beni e servizi con il minimo rilascio di gas serra. Ma, spiegano gli autori, in questo modo le strategie climatiche sono incoerenti con la promozione della transizione.
Prendendo ad esempio l’industria dell’elettricità, che secondo l’analisi dell’Edhec è penalizzata fino al 91% dalle strategie climatiche, gli autori mostrano che limitando gli investimenti in questo settore si possono ottenere buoni punteggi verdi del portafoglio. Ma, sottolineano, che sarà meno facile rendere più green l’economia eliminando l’elettricità.
Alessia Albertin
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