Serie: L’Età del Carbonio - Carbonsink per ET.Climate
Di chi sono queste emissioni?
I cambiamenti climatici sono diventati una priorità per le aziende di tutto il mondo. Oltre il 90% del Pil globale è ormai coperto da un obiettivo di emissioni nette zero di qualche tipo. Secondo S&P Global, un quinto delle 2.000 aziende quotate più grandi al mondo ha un obiettivo net zero al 2050. In Italia sempre più aziende stanno definendo strategie climatiche per ridurre le proprie emissioni e il proprio impatto sul clima. A fine 2019, solo due aziende italiane avevano un target di riduzione approvato dalla Science Based Target initiative. A giugno 2022, questo numero è salito a 35.
Comprendere la propria impronta carbonica è indispensabile per definire target di riduzione ambiziosi e progettare un piano efficace per raggiungerli. Per questo motivo, il primo passo per una robusta strategia climatica è la misurazione accurata delle proprie emissioni di gas serra.
Nel calcolo viene in aiuto il Ghg Protocol, uno standard internazionale grazie al quale è possibile svolgere una rendicontazione trasparente delle emissioni e garantire la comparabilità tra le emissioni di aziende e anni diversi.
Il Ghg Protocol prevede una distinzione in tre macro-categorie di emissioni: le emissioni dirette relative all’operatività dell’azienda vengono rendicontate come Scope 1, quelle indirette relative all’energia acquistata e consumata dall’azienda come Scope 2. La categoria Scope 3 include tutte le emissioni indirette generate lungo la catena del valore, a monte (dalle attività upstream) e a valle (dalle attività downstream). A seconda dei settori, le Scope 3 possono arrivare a rappresentare una quota anche molto significativa delle emissioni totali.
Secondo Cdp (ex Carbon Disclosure Project), le emissioni Scope 3 delle catene di fornitura valgono in media 11 volte le emissioni operative Scope 1 e 2. E questo numero è in continuo aumento anno dopo anno. Data la sempre maggior precisione nella rendicontazione, l’aumento è un indicatore di quanto la stima sia ancora per difetto: le emissioni Scope 3 effettive sono probabilmente ancora maggiori.
All’interno del campione, vi sono enormi differenze tra i vari settori. L’abbigliamento o il retail hanno rapporti tra emissioni operative e emissioni derivanti dalle catene di fornitura superiori a 25x, mentre i settori ad alta intensità emissiva, come la generazione di energia, hanno rapporti molto minori. In compenso, questi ultimi avranno emissioni Scope 3 downstream molto alte, dovute principalmente all’uso dei prodotti e alle relative emissioni.
Un discorso a parte va fatto per il settore finanziario. Come riporta il Cdp Financial Services Disclosure Report 2020, tra gli istituti finanziari che dichiarano le proprie emissioni tramite il questionario Cdp, solo il 25% pubblica anche le informazioni sulle emissioni finanziate, che però sono quelle più rilevanti per il settore.
Per emissioni finanziate si intendono le emissioni generate in maniera indiretta tramite prestiti, investimenti e sottoscrizioni assicurative. Secondo il Ghg Protocol, queste sono classificate come emissioni Scope 3 Categoria 15 – Investimenti. Ciò che emerge dallo studio è che le emissioni finanziate sono più di 700 volte le emissioni dirette. C’è quindi un impatto del settore finanziario ancora largamente non considerato, soprattutto se si considera che quasi la metà degli istituti finanziari esaminati non conduce analisi sull’impatto del proprio portfolio sul clima.
A questo aspetti, che evidenziano l’importanza di una misurazione sempre più completa e trasparente delle emissioni lungo tutta la value chain, si affianca la questione del double counting e delle relative riduzioni.
Se si estende la rendicontazione delle emissioni all’intera value chain, come previsto dagli standard come il Ghg Protocol, ci si ritrova in una situazione per la quale spesso le stesse emissioni fisiche di CO2 e altri gas serra vengono rendicontate in due o più inventari.
Basti pensare, ad esempio, a un camion che trasporta merci per conto terzi. Se tutte le aziende coinvolte rendicontassero le emissioni in maniera trasparente e completa, le emissioni del camion figurerebbero, rispettivamente: nelle Scope 3 – Uso dei prodotti venduti dell’azienda che ha prodotto il camion, nelle Scope 1 dell’azienda proprietaria dello stesso, e nelle Scope 3 – Trasporto e distribuzione dell’azienda proprietaria della merce.
Vi sono alcuni casi nei quali la possibilità di double counting è più concreta: il caso degli investimenti è il più eclatante, in quanto ogni emissione finanziata è necessariamente un’emissione (diretta o indiretta) di qualche altra azienda. Ma anche le emissioni Scope 3 di Categoria 11 – Uso di prodotti venduti si prestano bene a casi di double counting. In particolare per i settori della produzione di energia e di combustibili fossili, ma anche per i manifatturieri come l’industria automobilistica.
Il double counting non presenta alcun dilemma al livello di analisi della singola azienda. Ma quando diverse aziende, provenienti da settori anche diversi, vengono considerate insieme, può diventare un problema?
Un esempio è il caso delle emissioni nazionali italiane rispetto a quelle aziendali. Una ricerca commissionata dal Parlamento Europeo sullo stato dell’azione climatica in Italia riporta che il nostro Paese ha emesso 427 MtCO2e nel 2019. Le emissioni Scope 1, 2 e 3 cumulate delle prime cento aziende italiane per capitalizzazione ammontano a 1271 MtCO2e: un valore 3 volte più grande. Questo è in parte spiegabile considerando che le aziende italiane svolgono anche attività all’estero, ma anche ipotizzando fenomeni di double counting delle Scope 3 tra le diverse aziende italiane. Basti pensare ad un’azienda che vende combustibile e alle imprese che lo utilizzano: la prima avrà il consumo nelle proprie emissioni Scope 3 Categoria 11 – Utilizzo dei prodotti venduti, mentre le seconde nelle proprie emissioni dirette Scope 1.
Ad oggi, esistono diverse pratiche per la gestione del double counting. Ad esempio, la ripartizione delle emissioni tra gli attori della supply chain in modo proporzionale al valore aggiunto di ciascuno.
Il Eu Technical Expert Group on Sustainable Finance, però, non raccomanda alcuna gestione del double counting. Gli esperti considerano infatti che la quantità di emissioni totali può essere considerata come un proxy, anche se imperfetto, per i rischi finanziari legati ai cambiamenti climatici. Non importa se sono conteggiate più volte. Ne consegue che, per gli investitori che utilizzano indici di riferimento climatici, l’obiettivo di riduzione del rischio va perseguito anche ammettendo possibili casi di double counting fra inventari di aziende diverse.
Il double counting, insomma, non è un problema reale. Perlomeno non quanto l’attuale gap nella rendicontazione degli inventari. Siamo ancora ben lontani dall’avere una rendicontazione completa e trasparente. In Italia, ad esempio, tra le aziende più liquide sul mercato azionario, meno di 1 su 10 rendiconta tutte le categorie di Scope 3 rilevanti per il proprio settore. La priorità rimane quindi quella di accelerare il processo di mappatura, misurazione e rendicontazione delle emissioni, comprese le Scope 3 , senza paura del double counting.
Insomma, di chi sono queste emissioni? Per definizione, le Scope 3 sono le emissioni di qualcun altro, ma ogni azienda deve impegnarsi a ridurre il proprio impatto sul clima lungo l’intera catena del valore.
Roberto Mazzoncini, Aurora D’Aprile (Carbonsink)
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