report con University of Cambridge
Bcg, velo d’ignoranza sui costi del clima
«Nonostante l’evidenza empirica e il solido fondamento economico a favore del raggiungimento degli obiettivi stabiliti dall’Accordo di Parigi, il mondo non è al passo per farlo». Secondo il report “Landing the Economic Case for Climate Action with Decision Makers” (marzo 2025) di Boston Consulting Group (Bcg) e Cambridge, la comunità internazionale continua a procedere su una traiettoria incompatibile con tali traguardi.
La valutazione economica presentata nel report è chiara: limitare l’aumento della temperatura globale a meno di 2°C entro il 2100, in linea con gli impegni del Paris Agreement, consentirebbe di evitare perdite economiche fino al 24% del prodotto interno lordo (Pil) cumulativo mondiale. In assenza di interventi adeguati, seguendo l’attuale traiettoria che prevede un riscaldamento globale di 3°C, la contrazione dell’output economico potrebbe variare tra il 15% e il 34% rispetto allo scenario controfattuale privo di danni climatici.
CINQUE BARRIERE CHE FRENANO L’AZIONE CLIMATICA
Il report identifica cinque principali ostacoli che impediscono l’attuazione di strategie climatiche razionali dal punto di vista economico.
- Scarsa diffusione della consapevolezza sul razionale economico. Molti leader politici, amministratori pubblici e dirigenti d’impresa non comprendono appieno l’entità delle ripercussioni economiche legate al cambiamento climatico, né i ritorni potenziali di una risposta efficace. Secondo l’analisi condotta, solo la metà degli interventi istituzionali alle recenti Conferenze delle Parti delle Nazioni Unite ha menzionato i danni economici associati al climate change, e appena un terzo ha tentato una quantificazione precisa.
- Asimmetria temporale tra costi e benefici. Un’altra criticità è legata al disallineamento temporale tra gli sforzi richiesti oggi e i benefici attesi in futuro. Circa il 60% degli investimenti necessari per contenere il riscaldamento entro i 2°C deve essere effettuato prima del 2050, mentre il 95% dei costi dell’inazione che si possono evitare si materializzerà solo dopo il 2050. Questa dinamica disincentiva interventi tempestivi, specialmente nei contesti politici e finanziari dove prevale una logica di breve periodo.
- Distribuzione inequilibrata di costi e benefici tra Paesi. Il report sottolinea come il bilancio tra oneri e vantaggi sia tutt’altro che equo. I Paesi del Sud globale subiscono già oggi gli impatti climatici più gravi, pur avendo contribuito in misura marginale alle emissioni climalteranti storiche. Questa disomogeneità ostacola la costruzione di un consenso globale sull’intensità e sulla ripartizione degli sforzi di riduzione delle emissioni.
- Rischio di polarizzazione economica interna. La transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio rischia di produrre vincitori e vinti all’interno delle singole economie. Senza misure di equità nella transizione, l’80% delle perdite di posti di lavoro legate alla decarbonizzazione potrebbe concentrarsi in settori specifici ad alta intensità di carbonio. Si accentuerebbero le diseguaglianze socioeconomiche, rendendo necessari meccanismi di compensazione che favoriscano una transizione giusta.
- Comprensione incompleta dei danni economici. Le stime attuali dei danni economici derivanti dai cambiamenti climatici sono probabilmente sottostimate. I modelli oggi in uso faticano a catturare pienamente le conseguenze sistemiche, i rischi a bassa probabilità ma ad alto impatto (tail risks), e gli effetti a cascata dovuti al superamento dei tipping points, come il collasso delle barriere coralline o la transizione dell’Amazzonia a savana.
CINQUE PRIORITÀ STRATEGICHE
Un’agenda d’azione per superare l’inerzia attuale e trasformare il caso economico in scelte politiche concrete comprenderebbe cinque ambiti prioritari:
- Riformulare il dibattito sui costi del cambiamento climatico. Occorre spostare il focus dalla percezione dei costi immediati degli interventi di mitigazione e adattamento al riconoscimento dei costi esorbitanti dell’inazione, stimati tra l’11% e il 27% del Pil cumulativo mondiale da oggi al 2100. Un approccio comunicativo più efficace deve evidenziare il trade-off tra costi iniziali contenuti e benefici economici duraturi.
- Garantire trasparenza sui costi netti dell’inazione. Fornire dati chiari e accessibili sui costi che deriverebbero dal mancato rispetto degli obiettivi climatici è fondamentale. A oggi, gli investimenti necessari in mitigazione e adattamento ammontano complessivamente a solo l’1-2% del Pil cumulativo globale fino al 2100, a fronte di danni evitati molto superiori
- Rafforzare le politiche nazionali. L’obiettivo dev’essere accelerare sia la riduzione delle emissioni sia l’aumento della resilienza ai rischi climatici. Ciò include l’elaborazione di piani di transizione settoriali e la creazione di incentivi per la decarbonizzazione di industrie ad alta intensità energetica. Per rispettare il limite dei 2°C, le emissioni globali devono essere ridotte da oltre 50 gigatonnellate di CO₂ a meno di 30 gigatonnellate entro il 2030, con investimenti pari al 7% del Pil mondiale (circa 10,5 trilioni di dollari all’anno) entro il 2050.
- Rilanciare la cooperazione internazionale. Un dialogo multilaterale più efficace è cruciale per affrontare la disparità tra Paesi in termini di responsabilità storiche e capacità di risposta. È necessario intensificare il supporto finanziario e tecnico ai Paesi più vulnerabili per promuovere un’azione globale coordinata.
- Approfondire la conoscenza sui costi dell’inazione. Investire nella ricerca per perfezionare i modelli economici e migliorare la valutazione dei rischi climatici è essenziale. Il report segnala che si è già in procinto di superare 8 tipping points entro il 2050, e che il numero potrebbe aumentare fino a 13 entro il 2100.
Sofia Restani
Boston Consulting GroupstudiericercheUniversity of Cambridge